Germano Zanghieri
Proposta di discussione del 13 aprile 2010
RIFORMA DELLA SCUOLA E STUDIO DEI CLASSICI
di Germano Zanghieri
Che la conoscenza dell’antichità e in particolare dei classici greci e latini sia un passaggio ineliminabile nella formazione dell’uomo e del cittadino è stato per molto tempo un luogo talmente comune da suscitare persino un senso di fastidio e di insofferenza in coloro che auspicavano e auspicano un profondo rinnovamento della scuola media superiore (alla quale prima o poi si dovrà inevitabilmente estendere l’obbligo di frequenza), che tenga conto dei numerosi e profondi mutamenti compiutisi e di quelli tuttora in atto nel mondo moderno (a partire almeno dalla metà del Novecento). Si capisce dunque come a molti sia parso incompatibile con le necessarie e invocate trasformazioni, il mantenimento di alcuni caratteri culturali e organizzativi tipici della nostra scuola, soprattutto per quanto riguarda i contenuti e i metodi, gli obiettivi didattici, gli strumenti e i criteri di valutazione, ecc. Come spesso succede, si è fatta di ogni erba un fascio, non si è capito che rinnovamento, o riforma, non significa distruzione totale, azzeramento delle conquiste e delle esperienze passate, ma discernimento tra ciò che risulta ancora utile, giusto, vitale e quanto è definitivamente superato, incongruo, inadeguato. Così una delle vittime designate di questa prospettiva è stato in particolare lo studio dell’antichità greca e romana e del passato in genere, insieme allo spazio riservato specialmente nei licei alle cosiddette discipline “astratte”, considerate “avulse dalla realtà quotidiana” (filosofia, letteratura, arti, scienze teoriche, ecc.) e giudicate inconciliabili con le nuove tendenze politico-culturali e con la nuova idea di istituzione scolastica che si è andata configurando, intesa come servizio sociale e assistenziale o come un percorso con fini prevalenti di professionalizzazione. Alcuni hanno creduto di trovare la soluzione di ogni problema in proposte che si possono riassumere in formule del tipo “basta col passato: insegniamo il presente” e “basta con i concetti astratti e gli universali: insegniamo la praticità, il particolare”. Occorrerebbe quindi per costoro ridurre a un’estrema sintesi schematica lo studio di alcuni millenni di storia della civiltà umana e dilatare invece quello dell’ultimo secolo: è scandaloso, dicono, che un giovane italiano studi le dinastie dei faraoni e le imprese degli Assiro-Babilonesi o l’andamento delle guerre puniche e non sappia quasi nulla dell’età degli imperialismi, delle cause e della natura del nazifascismo, della storia politica ed economica del mondo nel secondo dopoguerra, che sia costretto a leggere (in piccola parte e superficialmente, peraltro) Omero e i lirici greci, Plauto, Virgilio e Orazio, a studiare faticosamente (e con scarsi risultati, in verità) le lingue morte di quegli autori e non conosca le lingue moderne o, al termine dei suoi studi, la poesia di Saba, di Montale, di Sereni o i romanzi di Gadda, Fenoglio, Calvino, Sciascia ecc. (senza contare l’ormai per tutti inaccettabile provincialismo di una visione storica e culturale quasi esclusivamente italocentrica). Ed è scandaloso, aggiungono, che lo studente venga informato delle dottrine platoniche e aristoteliche, o del pensiero di Kant e di Hegel, e non sappia cos’è e come si effettua un bonifico bancario, come funziona e si usa un computer, come si può riparare un rubinetto o realizzare un semplice collegamento elettrico in casa propria, ma soprattutto che non abbia la preparazione tecnica adeguata a inserirsi prontamente nel mondo del lavoro e delle professioni più richieste dal “mercato”. Occorre pertanto superare il predominio nei programmi scolastici degli studi teorici e di quelli rivolti al passato per introdurvi e privilegiare invece materie più tecniche e pratiche, più rispondenti alle necessità della vita reale e del mondo produttivo moderni. E’ questa una tendenza “attualistica” e pragmatistica che adotta a tutti i livelli un orientamento di tipo tecnico e professionalizzante, subordinato a richieste e a condizioni socio-economiche proprie del nostro tempo, che finisce per penalizzare soprattutto le ragioni e il senso di uno studio finalizzato alla formazione complessiva e organica della personalità intellettuale, etica, civile, e pertanto anche gli studi classici, considerati ormai inutili e “improduttivi”, peraltro già oggi praticati solo nel liceo classico e, ancor più parzialmente, nello scientifico e nell’istituto magistrale.
Non è chi non veda che tali posizioni hanno alcune buone, innegabili ragioni, a cui pertanto andrà data in ogni caso una precisa risposta in qualsivoglia progetto di riforma del sistema educativo, ma anche come nel loro radicalismo sbrigativo, spesso demagogico, superficiale e velleitario, queste implichino, proprio per la insufficiente conoscenza del passato e la carenza di solide basi teoriche, la rinuncia a rendere le future generazioni capaci di una reale e “critica” comprensione delle novità, delle conquiste, delle contraddizioni, delle forze e degli interessi che agiscono nel presente (nel quale così diventerà sempre più difficile intervenire adottando comportamenti corretti e coerenti, e compiere scelte consapevoli e responsabili, moralmente e politicamente), e l’impossibilità di quella trasmissione di “valori” culturali e civili, di categorie concettuali, di capacità di astrazione logica, di strumenti di pensiero e di metodo critico, di quella “scienza”, insomma, indispensabile per imparare a distinguere in generale il bene dal male, l’autentico dal falso, il giusto dall’iniquo e il lecito dall’illecito, tanto per se stessi quanto per la comunità di cui si è parte. Un sapere che peraltro si rivela, forse paradossalmente, efficace e prezioso anche per far fronte creativamente e con successo alla infinita varietà di compiti pratici e contingenti che la quotidianità ci impone (può sembrare strano, ma spesso chi ha studiato filosofia, o latino e greco, apprende e padroneggia il funzionamento del computer o individua la soluzione di un problema tecnico più rapidamente e con più chiarezza di chi non ha compiuto questi studi). Tutto questo patrimonio di cultura, su cui si fondano l’identità (intesa come consapevolezza del retaggio di complesse esperienze storiche e ideali) e la vitalità dei singoli come delle collettività, deve costituire invece l’obiettivo principale di qualsiasi processo educativo, senza di che anche le competenze e le attività tecnico-pratiche si riducono a mera prassi esecutiva e ripetitiva, inevitabilmente limitata e funzionale a interessi produttivi particolari e al controllo sociopolitico del cittadino, riduttivamente inteso solo come un “tecnico” etero-diretto, capace di svolgere precise e circoscritte operazioni, a cui non si richiede autonomia di pensiero e coscienza critica, ma solo disciplinata efficienza, quindi sostanzialmente deprivato di libertà e di sovranità nei processi decisionali.
Tutto ciò porta a una domanda (e forse a un’aporia) di fondo: è possibile rinnovare e avvicinare la scuola alle esigenze e ai caratteri della modernità, senza comprometterne la dignità culturale e la funzione formativa, senza snaturarla e dequalificarla con la rinuncia allo studio e alla trasmissione delle radici fondative della nostra civiltà e senza ridurla a un “servizio sociale”, volto soprattutto all’assistenza e all’addestramento professionale di anonimi “utenti” o addirittura di manipolabili consumatori? Io credo che si possa individuare una direzione in cui muoversi e una serie di interventi che potrebbero forse avvicinarci a una soluzione soddisfacente, che non verrà comunque da alchimie burocratiche, da invenzioni più o meno peregrine, marginali o puramente formali, da ipocrite risemantizzazioni del già visto, ma dovrà ristrutturare la scuola ridefinendo prima di ogni altra cosa i suoi contenuti e i suoi metodi: che cosa i giovani (che saranno cittadini, lavoratori, padri, mariti ...) devono apprendere e attraverso quali modalità; quali abilità e competenze devono sviluppare e in che rapporto fra teoria e prassi; con quale gradualità, libertà e flessibilità di opzioni; con quali procedure di recupero delle carenze eventuali; con quale elasticità nell’organizzazione e distribuzione dell’apprendimento nel tempo; con quali criteri e sistemi di valutazione, ecc.
Se è vero dunque che i nostri classici sono un fondamento ineliminabile del profilo culturale dell’Occidente, e forse dell’umanità intera (il che è vero anche per le altre culture del pianeta: ma qui si aprirebbe una riflessione molto più ampia e complessa ...), è altrettanto chiaro che oggi una serie di filtri e difficoltà oggettive e soggettive li allontana sempre più dai loro potenziali fruitori e in particolare dai giovani: innanzi tutto perché il greco e il latino sono lingue “morte” e nessuno, se non esigue minoranze (oltre a tutto con sempre minor convinzione), le studia più in misura adeguata (se mai lo è stata) a consentire la lettura diretta e il giudizio di valore sui testi; poi perché delle conoscenze della storia e delle culture antiche (filosofie, mitologie, religioni, costumi, economie, tecnologie, ecc.), spesso necessarie per decodificarne pienamente il messaggio storico e artistico, il lettore comune è quasi totalmente privo o ne ha nozioni troppo vaghe e approssimative; ma soprattutto per la convinzione erronea ma diffusa che lo studio di tutto ciò che riguarda gli antichi non serva ad affrontare i problemi del presente, che sia un’attività gratuita e fine a se stessa, un lusso monomaniacale per antiquari e occhialuti topi di biblioteca, improduttivi e fuori del tempo, legata all’altra convinzione, altrettanto generalizzata e altrettanto infondata, che gli antichi esprimano una visione del mondo e una problematica così lontane e diverse dalle nostre da risultarci ormai del tutto estranee e pressoché incomprensibili. A ciò si aggiunga un contesto sociale in cui la classe politica e molti intellettuali paiono aver perso la consapevolezza dell’urgenza e della necessità, per la sopravvivenza delle nostre società, di politiche culturali e scolastiche aggiornate e stimolanti, efficienti e di ampio respiro, che puntino alla “formazione”, appunto, e rendano l’apprendimento davvero educativo (col rigore e la fatica che richiede, ma anche con la gratificazione profonda, il piacere, che comporta l’acquisizione di un sapere che forma, che serve alla crescita e alla maturazione, e di competenze e strumenti di cui si può verificare giornalmente l’utilità e la “produttività”). Per non parlare qui degli effetti disgreganti e alienanti, anche sul piano etico e psicologico, delle condizioni di vita nelle moderne città, delle industrializzazioni selvagge, delle disparità e ingiustizie crescenti nello sviluppo economico e sociale, del degrado ambientale, della corruzione delle classi dirigenti, del malfunzionamento delle istituzioni; o degli effetti corruttori dei giganteschi sprechi, del consumismo e dell’edonismo moderni, che inducono a un materialismo morale grossolano e ottuso e a un particolarismo antisolidale, ipocritamente avallati dal sistema dell’informazione e dell’intrattenimento, manipolato da precisi e interessati poteri, con mezzi e modi raffinati e subdoli. Tutto ciò genera una nefasta indifferenza, una diffusa ignoranza e incomprensione dei fenomeni politici, sociali, culturali, economici, una cultura dell’individualismo egoistico, dell’illegalità, dell’arroganza, della menzogna e del raggiro profondamente antidemocratica, oltre che la volgare spettacolarizzazione priva di ogni pudore (virtù oggi pressoché estinta) di ogni evento e problema, pubblico e privato, anche il più degno di rispettoso silenzio, al fine di realizzare gli abnormi guadagni legati al mercato pubblicitario. Ne sono responsabili la rozzezza e la prepotenza di una sottocultura ultraliberista (questa sì fuori e contro la storia) dominata dalla ricerca del profitto incondizionato, che tenta di far decadere (e ci sta forse riuscendo) i principi etici e politico-civili affermati dalla nostra Costituzione, in un infame progetto di barbarico riflusso verso assetti precedenti le grandi conquiste della civiltà liberale e democratica europea.
In questo panorama non è realistico, né forse corretto, pensare di imporre uno studio generalizzato delle lingue classiche per ricostituire la immediata e feconda continuità di un tempo fra gli antichi e la modernità (ovviamente a sua volta non meno originale e ricca di conquiste degne di riflessione critica). Occorre invece a questo fine ridisegnare la scuola superiore e darle dei nuovi ordinamenti: innanzi tutto decidendo se è possibile e opportuno (io credo di sì) riservare lo studio sistematico e tecnico-linguistico del greco e del latino (difendendone e magari accrescendone la qualità) a un indirizzo “classico”, connotato proprio dal privilegio concesso alle scienze dell’antichità, o se sia meglio rinviare comunque questi studi a un livello superiore universitario, per specialisti, che li seguano per loro scelta e vocazione. In secondo luogo decidendo (e per questo ci vuole il coraggio del vero riformatore) di estendere la conoscenza della civiltà classica (senza studio linguistico, se non magari a livello di informazione elementare) a tutti gli indirizzi, appunto in quanto patrimonio di cultura irrinunciabile nel processo formativo di tutti, distribuendola sapientemente fra i programmi di altre discipline (la storia, la letteratura, la filosofia) o affidandola a una nuova “materia”, una specie di “Cultura Generale Classica” di tipo filosofico-letterario e antropologico (e in entrambi i casi appare possibile, nella più generale ridefinizione del sistema, individuare gli spazi orari e le modalità necessarie). E pensando anche al potenziale pubblico di lettori adulti, al quale la scuola non può non pensare in una prospettiva (forse troppo futuribile?) di educazione permanente, di scuola come istituzione che non cessa di operare, non cessa di mantenere una funzione formativa e di diffusione del sapere per i cittadini di ogni età che vogliano goderne, trovare i modi per avvicinare il più possibile all’uomo d’oggi la lezione contenuta nei testi degli antichi, rendendoglieli comprensibili e persino appetibili: impresa difficile, a meno che filosofi, poeti, storici e narratori greci e latini non vengano sottoposti a un processo di “traduzione” e “attualizzazione” (mi si scusi il termine abusato e un po’ improprio) che li trasporti, senza snaturarli, senza rinunciare al rigore e alla correttezza scientifica interpretativa, in questa modernità troppo spesso vistosamente ignorante, rozza e superficiale, approssimativa, refrattaria alla curiosità, all’apprendimento, alla conoscenza, e glieli presenti in forme fruibili, che richiedano solo un minimo di quelle competenze tecniche un tempo privilegiate da una cultura elitaria, accademica, storicistica e filologica, che in verità le destinava a un’aristocrazia ristretta, anche se illustre, del sapere (e di un sapere talora prevalentemente libresco, nozionistico e retorico). Non si è fatto forse lo stesso anche per i testi sacri della religione ebraico-cristiana, l’Antico e il Nuovo Testamento, facendo in modo che il loro insegnamento entrasse a fondo nelle coscienze, le nutrisse dei loro valori e contribuisse potentemente a determinare alcuni aspetti (positivi o negativi che fossero) della civiltà e della cultura occidentali? Occorre dunque rivolgersi a un vasto piano di traduzioni (è meglio leggere Omero e Lucrezio tradotti che non leggerli affatto), a un’opera di “divulgazione” e persino di “propaganda”: iniziative editoriali e commerciali, collane economiche, introduzioni, spiegazioni, commenti, notizie storiche e mitologiche semplici, attraenti e didatticamente efficaci, note critiche chiare e sintetiche (e senza timore di qualche schematismo o approssimazione, specie su questioni non essenziali) che mettano facilmente in evidenza l’attualità (eterna, forse?) dei temi e delle situazioni umane trattate dai classici, per favorire quei processi di identificazione, di analisi e di riconoscimento in essi delle proprie origini, dei propri moti interiori, delle stesse problematiche odierne (mutatis mutandis, naturalmente), senza cui non nasce l’interesse né tanto meno la passione per una qualsiasi opera letteraria o filosofica. E’ probabile che il lettore medio di oggi (e non intendo solo gli studenti) sia ancora in grado, al di là del triste declino culturale, etico, civile e umano dei nostri anni, di cogliere il senso e la bellezza di un’ode di Orazio, di una lirica di Alceo, di Saffo, di Catullo, di una tragedia di Sofocle o di Euripide, o di una commedia di Plauto, di un racconto di Erodoto o di Tacito, se gli vengono presentati insieme agli strumenti necessari per comprenderli appieno (e che non sono poi né molti né così astrusi come pensano alcuni) e soprattutto in un linguaggio che egli possa riconoscere come proprio e da cui farsi guidare alla scoperta di un patrimonio di sapienza e di umanità di sorprendente freschezza e vitalità. Occorre svecchiare lo studio dei classici, non rinunciarvi! Parlarne e farli parlare come se fossero scrittori di oggi (o quasi), evitando le pedanterie, i nozionismi e le rigidità che hanno spesso caratterizzato la prassi scolastica e che ne hanno minato l’efficacia didattica e culturale complessiva. Occorre anche rinunciare a insegnare esclusivamente la “storia della letteratura” (anche quella italiana, o straniera, naturalmente) per insegnare finalmente e soprattutto la “letteratura” (è sempre possibile del resto, oltre che necessario, recuperarne la dimensione storica all’interno dei singoli argomenti trattati) con un taglio forse più monografico e tematico (penso per esempio a una struttura a “moduli” intelligentemente pensati, magari di tipo interdisciplinare, in un quadro normativo certo di flessibilità e “autonomia”, ma che prospetti anche una salda omogeneità culturale di fondo in dimensione nazionale) per affrontare in traduzione italiana le opere e gli autori che i lettori (di qualsiasi età) sono in grado di capire, di apprezzare, di amare, che parlino un linguaggio vivo e comprensibile, anche se inevitabilmente, e giustamente, “letterario” e mediamente colto, che affrontino temi e problemi che essi possano sentire ancora vivi e appassionanti, e anzi oggi più appassionanti e vivi che mai. Tutto ciò comporterà una profonda ristrutturazione dei programmi, dei contenuti e dei metodi dell’insegnamento, una grande opera di formazione e riqualificazione professionale dei docenti, richiederà coraggio, fatica e tempo, e soprattutto l’impegno degli uomini di cultura, che dovranno essere dotati di grande lucidità e obiettività, di coraggio e senso di responsabilità, di passione pedagogica e didattica, di alto senso etico e civile.
Naturalmente alla base di proposte di tal genere c’è una condizione imprescindibile: è necessario disporre di traduzioni non solo letterali o “di servizio” (finalizzate alla comprensione linguistica del testo latino o greco), ma che invece appaiano e siano quasi autonome dagli originali (senza forzature né arbitrii, ovviamente), in una lingua cioè che, se pur colta, dignitosa e “letteraria”, sia quella di oggi (già Dante parlava dell’esigenza di un linguaggio accessibile anche alle “mulierculae”). Nel tradurre i poeti (per i prosatori il problema appare diverso e meno complicato) non ci si può più attardare in prescrizioni assurde (insostenibili anche scientificamente), come per esempio quella ancora praticata da alcuni pur prestigiosi traduttori, di rendere un determinato numero di versi latini con un ugual numero di versi (o pseudoversi) italiani o di ricalcarne il linguaggio e la metrica con tentativi di imitazione “barbara”, già dimostratisi fallimentari in passato, ecc. I soli effetti di tali pratiche e pregiudizi sono quelli di produrre testi illeggibili per pesantezza, artificiosità e oscurità, che, a parte l’inevitabile tradimento del significato complessivo e del valore letterario e poetico originale, non possono non suscitare nel lettore un moto di insofferenza e di repulsione. La libertà metrica conquistata dalla cultura letteraria del Novecento (su cui ci sarebbe molto da dire, dato che ha prodotto anche mostruosità e guasti rilevantissimi), se rettamente intesa, consente una flessibilità straordinaria e una modernità di resa della poesia antica prima impensabili, e dunque una sostanziale fedeltà agli originali molto maggiore che nei fossilizzati schemi delle forme chiuse tradizionali. Un poeta va tradotto in “poesia” e dunque in versi (anche se di una metrica “liberata”), non in una faticosa, ingrata e stucchevole prosa, magari andando a capo arbitrariamente e quasi a caso in una ridicola, fastidiosa simulazione degli accorgimenti linguistici e dei caratteri metrici e grafici esteriori propri della poesia. E’ invece forse diverso il caso dei grandi poemi epici, per i quali il nostro gusto si aspetta ormai (ma chissà?) un ritmo e una forma prosastica, anche se disposta ad alte accensioni liriche (come del resto avviene nella prosa moderna dei grandi narratori). Un progetto di traduzioni così concepite richiede l’opera di traduttori che non solo siano buoni conoscitori della lingua originale e ancor più di quella in cui trasportano l’opera, ma che soprattutto possiedano una sensibilità particolare, prima per cogliere e poi per rendere, col massimo di approssimazione e col minimo di forzature o fraintendimenti possibili, le sfumature, le allusioni, le ironie, i toni, il ritmo interno (logico, fantastico e sentimentale) dei testi affrontati. Devono essere insomma un po’ filologi, un po’ critici e un po’ poeti. Diceva Ezra Pound che “il miglior modo di tradurre è di usare il linguaggio che l'autore originale avrebbe usato se la sua lingua fosse stata quella del traduttore”: ciò esige da chi traduce una buona cultura e studi approfonditi, per entrare più a fondo possibile nel mondo e nell’animo dell’autore (col quale peraltro è necessario avere una discreta congenialità), ma soprattutto gusto e padronanza tecnica dei caratteri specifici, delle modalità, delle figure e degli artifici della lingua poetica, per fare di una poesia scritta in una lingua diversa dalla nostra (e che sia antica o moderna, per gli scopi di cui si sta parlando non fa sostanziale differenza) un’altra vera poesia, capace di trasferire nella nostra lingua la complessità, la ricchezza, l’umanità del testo originale nella misura più ampia possibile. Senza tali requisiti la sua traduzione determinerà, pur nell’esattezza letterale e “contenutistica”, da una parte una sensibile deformazione e una diminutio che altera o impoverisce la complessità e il valore letterario del messaggio originale, dall’altra un testo ostico e repulsivo nella forma e di scarso significato umano e poetico per chi legge.
Analoghi criteri, con gli opportuni adattamenti, si possono applicare a un riassetto dei programmi delle altre materie scolastiche, anche di quelle scientifiche, purché si rinunci ai rigidi storicismi e alle pretese di esaustività dell’impostazione crociano-gentiliana (a cui va riconosciuta organicità e alta dignità culturale, per i tempi in cui fu concepita e per gli studenti a cui era destinata, anche se ormai datata e superata in ogni senso) e purché non si dimentichi che l’obiettivo principale della scuola pubblica deve essere la “formazione” culturale e civile dello studente-cittadino, la sua capacità di imparare ad imparare, e non una sua impossibile, e davvero astratta, onniscienza o una sua generica, nozionistica, schematica informazione universale. Gli vanno pertanto offerti gli strumenti intellettuali e culturali per comprendere, giudicare ed eventualmente contribuire a trasformare il mondo, secondo i propri principi e le proprie convinzioni, fornendogli anche le essenziali conoscenze relative a tematiche e discipline che costituiscono i fondamenti specifici della cultura moderna, finora scandalosamente trascurate o ignorate dai curricoli scolastici, come quelle economiche, giuridiche, sociologiche, antropologiche, psicanalitiche, musicali, cinematografiche e teatrali, mediche, ecc. Penso che ciò sarebbe possibile, anzi che sarà necessario, e comporterà un processo di rifondazione culturale non semplice né indolore, ma potrebbe forse conferire alla scuola pubblica nuovi caratteri, in cui i cittadini tutti possano riconoscere la funzione formativa come uno degli interessi primari della collettività e l’attuazione non demagogica né velleitaria di alcuni principi della Costituzione, che è il frutto delle dolorose e tragiche esperienze della prima metà del Novecento, la cui attualità non è affatto (purtroppo e per fortuna) tramontata.