Maurizio Bettini
La Repubblica giovedì 5 marzo 2015
De minimis non curat praetor, dicevano i Romani: il pretore non si occupa delle minuzie, è un magistrato troppo importante. Sarà per questo che, quando si discute della crisi del liceo classico, gli esperti raramente si interessano al problema della traduzione (dal latino o dal greco) che viene assegnata ogni anno ai maturandi? Evidentemente la natura di questa prova viene considerata una questione marginale rispetto al valore fondativo degli studi classici, per chi li difende, o alla loro irrilevanza, per chi li attacca. La realtà vuole, però, che al termine del liceo lo studente del classico debba affrontare una prova di traduzione, non di superiore umanesimo. E che, se questa prova fosse diversa, i suoi studi risulterebbero subito assai meno “inattuali”. Al presente le cose stanno così: il maturando è messo di fronte a un testo, latino o greco a seconda degli anni, senza che gli sia consentito scegliere fra più opzioni; di esso gli viene indicato l’autore, ma non l’opera da cui è tratto, né vi è altra forma di contestualizzazione. Dopo di che, con l’aiuto del vocabolario, deve mettersi a tradurlo, ovvero ingegnarsi a copiarne la versione da internet, come oggi largamente avviene. Qual è la ratio presupposta da questa prova? Manifestamente, che cinque anni di liceo siano serviti ad apprendere la “lingua” latina o greca, visto che la valutazione verte su una nuda prova di traduzione. Tant’è vero che il testo assegnato può essere tratto anche da un autore mai tradotto in classe, come Celso o l’Aristotele delle opere scientifiche. Che problema c’è? Il latino è latino, il greco è greco: o lo si sa o non lo si sa.
Se la ratio di questa prova è chiara, è altrettanto chiaro che tutto ciò non ha senso. Cinque anni di liceo classico si fanno per conoscere non solo la lingua, ma la cultura greca e latina, in tutte le sue accezioni. E la prova di maturità dovrebbe esser concepita in modo tale da poterlo esprimere. L’assoluta incongruità di quanto accade al classico emerge chiaramente dal confronto con le prove finali del liceo linguistico, ossia un corso di studio che, questo sì, è centrato sull’apprendimento di “lingue”. Qui allo studente, messo di fronte a più testi fra cui sceglierne uno, viene richiesto di «comprendere e interpretare» tale testo rispondendo «a domande aperte e/o chiuse ad esso relative » e redigendo «un testo in forma di narrazione o descrizione o argomentazione afferente alla tematica del testo scelto». Chi ha concepito questa prova, evidentemente, sa che conoscere una lingua straniera non significa banalmente riuscire a travasare un enunciato inglese in uno italiano: ma saper riarticolare una lingua e una cultura altre’ nelle forme linguistiche e culturali che ci sono proprie. Tutto al contrario, la seconda prova della maturità classica continua a presupporre che “sapere” il latino o il greco significhi solo non fare troppi errori, di sintassi o di grammatica, quando si mette in italiano un brano di Seneca o di Senofonte. E tutto ciò avviene al termine di un corso di studi che non è concepito per insegnare lingue, ma per aprire più vasti e generali orizzonti di cultura. La tipologia della seconda prova dei classici va cambiata, non c’è dubbio. E’ quanto è emerso da tre incontri – Torino, Siena, Benevento – che il Centro Ama dell’Università di Siena ha organizzato con il sostegno della Direzione degli Ordinamenti Scolastici del Miur (documentazione sul sito https://antropologiamondoantico.wordpress.com). Oltre un centinaio di insegnanti di materie classiche, appassionati e motivati, ma sempre più inquieti, hanno fatto rete per discutere di questo problema e per formulare proposte. Decisamente semplici, bisogna dire, e tali da poter essere adottate anche subito. Ne citiamo alcune: fornire al candidato non una sola traccia, ma una rosa di più testi, perché possa scegliere quello più congeniale a lui e alle cose che ha studiato; inoltre far precedere il testo da una contestualizzazione più ampia che aiuti a capire di cosa si sta parlando. Sono anni che la linguistica ha messo in evidenza l’importanza del “contesto” per determinare il senso di qualsiasi enunciato: perché greco e latino dovrebbero fare eccezione? Si è insistito poi sull’opportunità di far seguire al testo da tradurre una serie di domande che vertano non solo sui suoi aspetti linguistici, ma anche su quelli culturali o letterari. In questo modo si permetterebbe finalmente allo studente di valorizzare anche ciò che ha capito, e possibilmente amato, della cultura antica. Naturalmente questa trasformazione richiede di concedere più ore per la prova, almeno sei, di scegliere testi più brevi ma, soprattutto, di contenuto culturale più rilevante: in modo cioè da poterne anche parlare, oltre che metterli in italiano. In particolare, sapere che la prova finale darà spazio non solo alla lingua, ma anche alla cultura dei Greci e dei Romani, permetterà finalmente agli insegnanti di dedicare più tempo e più energie a questi aspetti – i più affascinanti degli studi classici - senza sentirsi in colpa. Se davvero si vuole far rivivere il nostro liceo, cominciamo dunque col ridargli aria togliendo il “tappo” della seconda prova. Il Ministro Giannini è una specialista di glottologia, sa bene che tradurre non è un atto puramente linguistico, ma chiede di mobilitare cultura, individuare analogie e differenze, e soprattutto dà la possibilità di mettere in prospettiva noi stessi rispetto agli altri: quelli di cui (chiunque essi siano) affrontiamo la lingua. Sta qui la bellezza, e l’importanza formativa, del tradurre. La preghiamo perciò di fare in modo che anche allo studente del classico sia finalmente permesso di esprimere tutto questo.