“In democrazia il popolo è sempre sovrano” FALSO!
di Paolo Fai
La parola democrazia fa la sua prima apparizione nell’Atene del V secolo a.C., per esprimere la forma costituzionale in cui il popolo governa sé stesso. Da allora, gli scritti di filosofi, storici, drammaturghi e retori antichi, coevi o successivi a quella inaugurale esperienza politica, costituiscono «il nucleo di quasi tutte le riflessioni sulla democrazia che sono state espresse nei successivi duemila e cinquecento anni». Questo non significa che la storia si ripeta. Significa solo che «i molti problemi delle democrazie attuali sono simili ai problemi della democrazia antica che travagliarono il pensiero dei Greci».
Lo sostiene Emilio Gentile, insigne storico del fascismo, nel libro “In democrazia il popolo è sempre sovrano” FALSO!, Laterza 2016, pp. 154, euro 10,00, dove affronta, con encomiabile spigliatezza e acutezza, uno dei temi cruciali del dibattito politologico, non solo di oggi: se, nei fatti, democrazia sia veramente “sovranità del popolo” o se, piuttosto, nelle sue diverse epifanie moderne, dal 1776 (Rivoluzione nordamericana) e dal 1789 (Rivoluzione francese) fino ai nostri giorni, il significato inerente alla parola non sia stato sistematicamente tradito, perfino snaturato, dai governanti.
Il libro ha un’impostazione originale che consiste nel dialogo tra il Genio del libro, “alter ego” dell’autore, che pone domande sulla democrazia moderna, rappresentativa, sulle sue crisi periodiche, sui suoi stravolgimenti e su tanti altri fenomeni degenerativi, cui Gentile fornisce risposte che non sono mai consolatorie ed elogiative, a prescindere. Sono invece sempre problematiche, aporetiche, come del resto è, per nostra fortuna, quella forma di governo nelle sue incarnazioni storiche. Perché, «come osservò nel 1952 lo storico Gaetano Salvemini, una democrazia perfetta “non è mai esistita in nessun paese di questo mondo. La democrazia è stata e sarà ovunque e sempre qualcosa di imperfetto, che deve sempre perfezionarsi”. Possiamo però aggiungere che una democrazia che non tenda costantemente a perfezionarsi, cercando di adeguare la realtà all’ideale, è destinata a scivolare sulla china di una crescente imperfezione, fino a diventare una democrazia recitativa».
Nonostante il XX secolo, pur con «gli orrori delle guerre globali e del genocidio», sia stato definito, nel 1999, dal presidente della Freedom House “il secolo della democrazia”, è però anche vero che, in quello stesso anno, il sociologo israeliano Shmuel Noah Eisenstadt «paventava un “deconsolidamento delle democrazie nelle società contemporanee” per effetto di processi interni alle democrazie stesse, come il rafforzamento del potere esecutivo, la burocratizzazione di tutte le aree della vita sia sociale che politica, la “sovra-concentrazione del potere” nella produzione, nella diffusione e nell’accesso alla informazione, la crescente professionalizzazione tecnica delle conoscenze relative al processo politico e la tendenza degli esperti e dei leader politici a considerare i più vasti settori della società incapaci di comprendere un tale sistema di informazioni». Secondo Eisenstadt, tutto ciò avrebbe comportato una diffusa apatia politica e avrebbe minato la partecipazione del popolo. Insomma, mentre aumenta il numero dei Paesi retti a democrazia, secondo il “democratometro” della Freedom House perfino Paesi di lunga e consolidata democrazia liberale, come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, sono per molti aspetti “democrazie difettive”. Per non parlare della democrazia autoritaria di Putin in Russia e di Erdogan in Turchia e della «proliferazione di nuove “democrazie illiberali” già avvenuta in paesi dell’America latina e in molti altri dell’Europa orientale, dell’Asia e dell’Africa».
È però il declino della sovranità popolare nelle democrazie rappresentative che hanno inaugurato la tradizione liberale moderna a suscitare maggiore preoccupazione nei politologi. Così, l’inglese Colin Crouch, «nel 2000, quando era ancora vivo l’entusiasmo per la democrazia trionfante, parlava di “postdemocrazia”», constatando che «la democrazia liberale prevalente in Occidente insisteva soprattutto sulla partecipazione elettorale “come attività politica prevalente per la massa”, mentre lasciava ampio spazio all’azione dei potentati economici per influire decisamente sull’agenda politica dei governanti». Crouch denunciava in sostanza che “il potere è altrove” (specialmente tra i tecnocrati al servizio del capitale finanziario multinazionale) rispetto alla retorica della sovranità popolare.
Non per caso, allora, la prestigiosa rivista inglese «The Economist», nel suo rapporto sulla democrazia del 2015, ha dedicato un intero paragrafo al “demos assente”, per dire che i dirigenti politici delle democrazie occidentali hanno esautorato il popolo, in linea, peraltro, con l’atteggiamento sospettoso nei confronti di esso da parte dei politici e dei governanti negli Stati Uniti e nella Francia, già subito dopo la conquista della sovranità popolare. La tirannide della maggioranza, negli Stati Uniti, era infatti temuta peggio del diavolo dalla maggior parte dei Padri fondatori, che si impegnarono a limitarla. La prova provata è la recente elezione (lo scorso 8 novembre) di Donald Trump alla presidenza degli Usa. Quella “democrazia oligarchica” non prevede l’elezione diretta del presidente degli Stati Uniti solo da parte dei singoli cittadini americani, ma anche, e decisiva talvolta, da parte di una assemblea di grandi elettori che rappresentano i singoli Stati della Federazione. I costituenti diffidavano degli umori del popolo e ritenevano che il presidente di una Federazione sia autorevole e riconosciuto soltanto se eletto dalla maggioranza dei grandi elettori degli Stati che ne fanno parte. In virtù di questa “variabile” elettorale, di matrice oligarchica, Hillary Clinton, candidata del partito democratico, è stata sconfitta dal voto “oligarchico” favorevole a Trump, nonostante nel voto popolare avesse ottenuto due milioni e mezzo di voti in più del magnate repubblicano!.
Ma il declino della democrazia rappresentativa – il discorso, ora, si restringe alle vicende di casa nostra – è legato anche alla scomparsa dei partiti politici dell’Italia repubblicana, nati o riemersi nel 1945, dopo il crollo del fascismo. Travolti quasi tutti dalle inchieste giudiziarie di Tangentopoli, tra il 1992 e il 1993, nel vuoto che ne seguì s’insediarono spesso partiti personali, tra i quali ad occupare la scena è stato per lungo tempo quello di Berlusconi. «Nessun altro uomo politico e governante della Repubblica italiana – scrive Gentile – ha dato un impulso così forte alla personalizzazione della politica, come ha fatto Berlusconi, non esitando a presentare la propria persona fisica come la corporizzazione del popolo sovrano». Non solo, ma, con l’avere con insistenza ripetuto che egli incarnava «la volontà popolare essendo stato l’unico eletto direttamente dal popolo sovrano», ha istituito un rapporto diretto e senza mediazioni tra il capo e la folla. Come è proprio del cesarismo o del bonapartismo, non della democrazia.
Così ha fatto anche il suo erede politico, Matteo Renzi, che sulla corporeità, sul giovanilismo (vedi alla voce “rottamazione”) e sul “culto della personalità” (l’espressione “io ci metto la faccia”, ripetuta come un mantra, è, per Gentile, «l’emblema della personalizzazione della politica e del potere, che sta sostituendo negli attuali Stati democratici la sovranità popolare»), ispirato da arrogante egolatria, ha giocato tutto, fino a perdere tutto in quella partita decisiva su cui tutto aveva puntato per attuare una svolta, se non proprio autoritaria, certo oligarchica e antiparlamentare: il referendum sulla “nuova” Costituzione dello scorso 4 dicembre. Capace, più e peggio di Berlusconi, di “narrare” balle spaziali, forte del monopolio delle menzogne che aveva su stampa e Tv, Renzi ha impostato la sua agenda politica, in modo coerente col suo più grande obiettivo di stravolgere la democrazia parlamentare, secondo i dettami dei potentati economico-finanziari (Confindustria, JP Morgan e compagnia bella). Infatti, anche se segretario del PD, Renzi, facendo proprie «le categorie neoliberiste come se fossero una condizione di natura», ha rivelato che il vero volto di quella che «continuiamo a chiamare sinistra è, in realtà, una destra tecnocratica venata di populismo», perché «la demagogia renziana è populista, ed è la peggiore perché è populismo di governo» (Marco Revelli).
Tuttavia, nonostante democrazia significhi “potere del popolo”, il popolo non è autocefalo. Mai! Neanche nell’antica Atene, primo e unico esempio di democrazia diretta, il popolo governava sé stesso. Anche nell’Atene democratica vigeva infatti «la legge ferrea dell’oligarchia» – anche se quella teoria sarà formulata solo nel 1911 dal politologo tedesco Robert Michels nel libro Sociologia del partito politico. Ogni anno i cittadini ateniesi eleggevano come loro capi dieci strateghi. E, tra essi, Pericle fu eletto stratego per oltre trenta anni quasi ininterrottamente, imponendosi sugli altri nove perché «era personaggio potente, per prestigio e lucida capacità di giudizio, assolutamente trasparente e incorruttibile, reggeva saldamente il popolo senza però violare la libertà e non si faceva guidare da esso più di quanto non lo guidasse lui, poiché non cercava di conseguire il potere con mezzi impropri e perciò non era costretto a parlare per compiacere l’uditorio. Il suo potere di fondava sulla considerazione di cui godeva… Di nome, a parole, era una democrazia, di fatto il potere del primo cittadino» (Tucidide, II, 65, 8-9)!
«Nella storia della democrazia, i capi – nota infatti Gentile – hanno avuto un ruolo importante e talvolta decisivo per la salvezza della stessa democrazia: penso a Lincoln, a Roosevelt, a Churchill, a de Gaulle. […]. Ma alla fine, finché i capi saranno eletti dai governati, dipenderà dagli elettori se vorranno continuare a essere sovrani protagonisti di una democrazia rappresentativa, oppure ridursi a essere comparsa in una democrazia recitativa».