Forum 29: Il fucile di Marc Bloch

Il fucile di Marc Bloch

 

di Paolo Fai

 

Felice scelta iconografica, il fucile, la cui canna è una matita da disegno appuntita sormontata da cannocchiale e mirino, chiarisce, come meglio non si potrebbe, il “senso” dello smilzo pamphlet «Il fucile di Marc Bloch – In difesa degli studi umanistici», Castelvecchi, pp. 72, euro 12,50, firmato da Davide Canfora, professore di Filologia italiana nell’Università di Bari. Il lettore se ne renderà conto leggendo l’appassionato e risentito grido di dolore e di protesta per il vertiginoso declino degli studi umanistici. Rispetto ai tanti, ottimi e meritevoli, libri in difesa del latino e del greco apparsi in questi ultimi anni, quello di Canfora è un esplicito atto di accusa indirizzato alla classe politica che ha ridotto in miseria, culturale e finanziaria, le facoltà umanistiche universitarie.

 

Il giovane studioso (ma egli fa ironia su sé stesso, quando, a pag. 38, scrive che giovane docente «in Italia significa un docente coi capelli già in parte bianchi, tra i quaranta e i cinquant’anni»), denuncia infatti “apertis verbis” i mali, ormai cronici, dell’Università, piagata da riforme dissennate, dai tempi del sempre più deprecato Sessantotto, quando fu «abolita l’idea che studiare fosse dal punto di vista dello studente una cosa seria». I fulmini di Canfora si appuntano però sulla catastrofe abbattutasi venti anni fa sull’università per mano del ministro Luigi Berlinguer, che «ha superato in grandezza nella Storia umana le conquiste di Newton, Fleming ed Einstein» con la «geniale invenzione del 3+2». Concomitante, perché la débâcle fosse completa, la «tendenza folle, incosciente», a moltiplicare i corsi di laurea, a creare nuovi posti di ricercatore e a far pullulare nuove discipline, con la conseguente “irresistibile ascesa del cretino locale”, come con caustica icasticità, il filosofo Pietro Rossi stigmatizzò l’inevitabile reclutamento clientelare di docenti poco qualificati ma utili al notabilato politico.

 

Ma non fa sconti a nessuno, il giovane Canfora: né alla Gelmini, che, in vena di sensazionalismo nominalistico, decise che «le facoltà, che erano state la gloria dell’università dai tempi del Medioevo», dovevano scomparire, e furono sostituite dai dipartimenti, né a Fabio Mussi, il quale, da ministro dell’Istruzione del governo Prodi, creò «un’agenzia esterna e, di fatto, privata, l’Anvur (Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca)», la quale «ha attribuito a se stessa una funzione di pulizia culturale pericolosissima» per la sopravvivenza di un corso di laurea che non sia gradito a questa specie di occhiuto Grande Fratello. Ugualmente gli strali di Canfora non risparmiano il paradosso pseudodemocratico per cui «il giudizio sulla docenza è affidato a studenti che, schiavi di internet e della televisione, sono infarciti di false notizie, sono all’oscuro della precisione che è il fondamento elementare degli studi, ignorano le periodizzazioni più banali relative alla nostra Storia». Insomma, a giudicare i docenti sono i cosiddetti nativi digitali, iperconnessi e ipoleggenti, che appartengono a quella vasta tribù di web-dipendenti per i quali Enrico Mentana ha coniato un felice neologismo: webeti.

 

Tutto questo mentre «il dato di fondo è che il versante umanistico (letterario, linguistico) della cultura nazionale è allo sfascio». Contro questa deriva nichilistica cui sembra condannata, nel disprezzo generalizzato, «la cultura umanistica» considerata «una zeppa superata e improduttiva» che «alimenta solo una sacca di parassitismo», Canfora addita delle proposte, semplici e facili da mettere in pratica. E lo fa partendo da un’osservazione di lampante verità: che «l’uomo ha in dote la prerogativa di pensare, scrivere e leggere», e che è stato l’istinto che ha spinto gli uomini a scrivere quello che sapevano «per averlo visto coi propri occhi o per averlo sentito raccontare». La memoria, allora, non conta tanto per costruire il futuro, ma perché – ed è quel che più importa – senza la Storia, cioè senza il nostro passato, noi non capiremo mai chi siamo.

 

Lo aveva capito benissimo Marc Bloch, «scrivendo in clandestinità e in uno dei momenti più bui della Storia umana […] un libro [«Apologia della storia»] in cui spiegava le ragioni per cui occorreva conoscere la Storia: cioè applicarsi al più inerme dei saperi proprio mentre il mondo sembrava precipitare. A fronte dei mitra delle SS, fu quello il suo fucile». Anche se «di là a breve i nazisti lo avrebbero fucilato per appartenenza alla nazione ebraica e per aver collaborato con la Resistenza francese», il fucile di Bloch «ha colpito molto più a fondo di quelle mitragliatrici tedesche, che all’epoca erano così sofisticate e apparvero per qualche tempo invincibili».

 

Giustamente persuaso che la vera cultura si acquisisce attraverso la lettura dei libri «su carta e in originale, non a video o in fotocopia», in quanto «la stabilità dell’oggetto libro rimane di gran lunga superiore, per non dire ineguagliabile» rispetto a «strumenti di lavoro occasionali ed effimeri» come le fotocopie, Canfora osserva, con sgomento, che «gli studenti delle discipline umanistiche non leggono più o leggono pochissimo», immersi come sono nella «società dell’immagine».

 

Dunque, il quadro è disperante, anche perché non si scorge all’orizzonte niente che possa rendere meno pessimisti sul futuro della scuola, dell’università e della ricerca. Infatti, «in Italia si spende per l’istruzione molto meno che negli altri Paesi industrializzati», mentre «le strutture vanno in pezzi, le biblioteche non possono più acquistare libri, i progetti di ricerca (in primis dell’area umanistica) non vengono finanziati se non con la concessione di briciole, gli stipendi dei docenti sono bloccati», e l’insegnamento vero e proprio diventa marginale rispetto ai «piccoli e grandi impegni burocratici, che divorano il tempo», costringendo i professori «a occuparsi dalla mattina alla sera di schede, scadenze, vincoli, numeri di crediti e mille altre assurdità di questo genere».

 

A sostegno del condivisibile assioma che si dà cultura solo a patto che essa sia fondata sulla lettura dei libri di carta, Canfora conclude il suo indignato pamphlet con una lunga citazione della voce «I libri» dal «Dizionario filosofico» del pamphlettista principe della letteratura moderna, Voltaire. È, certo, un elogio dei libri, ma, da impenitente ed impertinente ironista e realista quale era, François-Marie Arouet tra quelle righe insinua una nota di inquietante attualità: «Malgrado la gran quantità di libri, quanto esiguo è il numero dei lettori! E, se si leggesse con qualche frutto, si assisterebbe ancora alle sciocchezze cui ogni giorno si abbandona la gente comune?».

 

A questa metafisica domanda, la sola risposta possibile è «Ah saperlo, saperlo!», come esclamava Riccardo Pazzaglia, il filosofo della banda, allegra e scombinata, di «Quelli della notte».

Circolare del Presidente Nazionale 11.11.24

 

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