Divulghiamo in questa pagina tre contributi a sostegno dei Licei Classici del Prof. Paolo Fai, già docente di Latino e Greco. I tre articoli sono stati già pubblicati, fra il 2011 e il 2013, nella rivista Sette del «Corriere della Sera» e nei quotidiani «La Stampa» e «La Sicilia». Il secondo intervento si presenta come risposta ad un articolo di giornale, che, per maggiore chiarezza, viene integralmente riproposto.
Uno spettro si aggira per l’Italia ed ha il volto sinistro di una parola, “dimensionamento”, parto di qualche pallido burocrate del MIUR, esperto nell’antilingua di calviniana memoria. Brutta in sé, ma più brutta per il male che arreca a tutte le città di piccola e media grandezza che punteggiano l’Italia, da Nord a Sud. Infatti, il protervo diktat ministeriale impone che, se un istituto scolastico non raggiunge il numero di 900 alunni, debba essere “accorpato” con un altro istituto, perdendo la sua autonomia. Non solo. Il rischio concreto è che perda anche il nome (“Virgilio”, “Canova”), acquisendo quello dell’istituto più numeroso e diventando così un’enclave minoritaria dentro realtà scolastiche diverse e concorrenti. Con tutta probabilità spariranno i Licei classici di Mantova (48.000 abitanti) e Treviso (83.000 abitanti), di Matera (61.000 abitanti) e Viterbo (64.000 abitanti). Come sarà cancellato, dal prossimo anno scolastico, il Liceo classico “Tommaso Gargallo” di Siracusa (123.000 abitanti), che, pur potendo contare anche sulla presenza di studenti provenienti dai paesi limitrofi, mai ha raggiunto, nella sua prestigiosa e lunga storia, cominciata lo stesso anno dell’Unità d’Italia, un numero così elevato di studenti. Come, sicuramente, le altre città portate ad esempio.
Perché il liceo classico è stato sempre una scuola d’élite: intellettuale, non sociale, perché la natura è giusta dispensiera dei suoi doni e «non distingue l’un da l’altro ostello». Ora, invece, la spietata legge dei numeri e una miope politica della lesina, che hanno reso la scuola italiana, dalla materna all’Università, il fanalino di coda nel concerto europeo, si abbatte come una mannaia proprio su quel corso di studi secondari superiori che è stato da sempre considerato il luogo di formazione dell’eccellenza del nostro sistema scolastico. Per tacere della vasta ferita che si infligge alle ragioni del cuore, agli affetti e alle memorie, all'identità civile e collettiva che, nel nome della propria scuola, trova un forte e indelebile suggello.
Ben altro coraggio e intelligenza occorrono per capire che invece bisogna salvaguardare la specificità dei licei classici, se si vuole che le giovani generazioni, dalle quali dovrà venir fuori la classe dirigente di domani, acquisiscano gli strumenti critici idonei per vedere meglio «ciò che, aggirandoci nel presente, non sempre capiamo», per capire che «quella politicità latente e onnipresente [nella civiltà greca e ellenistico-romana] è una straordinaria sfida intellettuale, è il laboratorio privilegiato di ogni sapere critico… La posta in gioco è la comprensione della sottigliezza e pervasività di quell’attività intellettuale e pratica che unifica l’agire umano e gli dà senso» (Luciano Canfora).
Paolo Fai, 63 anni,
già professore di Latino e Greco nel Liceo classico “T. Gargallo”
Dalla rivista SETTE del Corriere della Sera del 17 aprile 2013,
rubrica “Lettere al Direttore”.
Se traduci l’Antigone vincerai in Borsa
Dalla politica agli affari, è ancora il liceo classico a garantire i migliori sbocchi: un seminario a Napoli
RAFFAELLO MASCI INVIATO A NAPOLI Volete avere successo negli affari, in politica, nelle professioni? Più in generale volete sottrarvi al ruolo di mero esecutore di una competenza tecnica, sempre e solo quella? Questi obiettivi non solo richiedono una solida e profonda cultura umanistica, ma addirittura una conoscenza specifica del latino e del greco, con tanto di lunghe, reiterate e magari anche noiose versioni. La tesi è stata illustrata ieri da Giampiero Bergami – manager di Unicredit Corporate Banking – presso la sede dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, dove si è tenuto un seminario dedicato al liceo classico «nuovo», quello cioè uscito dalla riforma Moratti. L’iniziativa è della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, che a tutti e sei i licei «riformati» sta dedicando altrettanti convegni di approfondimento. Oggi il classico, se non ha perso il suo blasone, ha smarrito la capacità attrattiva: «A frequentarlo è il 7% della popolazione studentesca, con punte del 10% al Sud - spiega il pedagogista Giorgio Chiosso, dominus di questa iniziativa – e rischia di essere esposto a un duplice rischio: la nostalgia e la marginalizzazione. Un indirizzo di studi, cioè, che sa di antico ma anche di stantio, oppure che è destinato a essere ‘‘residuale’’, per non dire sopravvissuto. e tutto questo è profondamente sbagliato». Da qui il «classico-pride» che si è voluto celebrare ieri a Napoli. A questo proposito Bergami ha intrattenuto – e fatto sobbalzare sulla sedia – un uditorio di docenti e dirigenti scolastici, spiegando «Perché tradurre dal latino e dal greco coltiva il pensiero strategico». L’idea di fondo è che «il mondo degli affari e della politica sono guidati da scelte di lungo termine e la capacità strategica di una impresa si basa indissolubilmente sulla sua capacità di analisi». Schematicamente, Bergami ha illustrato come tradurre dalle lingue classiche significhi esercitarsi con la complessità e imparare a confrontarsi con essa. Esempi? «La concordanza dell’aggettivo: l’aggettivo concorda in genere, numero, caso con il nome cui si riferisce. Si presentano spesso casi di concordanza in cui l’aggettivo e il nome seguono declinazione diverse (pinus procera). La consecutio temporum: i verbi sono usati con valore relativo, indicano, rispetto al verbo reggente, un rapporto di contemporaneità, anteriorità o posteriorità». eccetera eccetera. «La banalità degli esempi – ha detto Bergami – non induca a sottovalutare l’impatto degli stessi sulla forma mentis di chi si cimenta per cinque anni nelle traduzioni. Tradurre dal latino e dal greco significa assumere abitudini mentali di approccio al problem solving, all’individuazione di rapporti di causa-effetto, alla separazione di ambiti omogenei. Facoltà che fanno la differenza tra chi ha studiato le lingue antiche e chi no». Anche quando i problemi da risolvere sono di alta finanza: «Stamattina – ha raccontato – prima di venire qui abbiamo dovuto affrontare una questione finanziaria molto complessa. Alla luce delle mere regole, delle tecnicalità del caso, la soluzione non c’era. Eppure andava trovata. Dove? Nelle regole non scritte... Per dirla tutta: nell’Antigone». Al convegno di Napoli è stato molto citato il saggio della filosofa americana Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, appena pubblicato dal Mulino: «Sedotti dall’imperativo della crescita economica – dice la studiosa – e dalle logiche contabili a breve termine, molti paesi infliggono pesanti tagli agli studi umanistici e artistici a favore di abilità tecniche e conoscenze pratico-scientifiche. e così, mentre il mondo si fa più grande e complesso, gli strumenti per capirlo si fanno più poveri e rudimentali e mentre l’innovazione chiede intelligenze flessibili, aperte e creative, l’istruzione si ripiega su poche nozioni stereotipate».
da «La Stampa» 4 marzo 2011
Antigone e la Borsa
A proposito dell’articolo di ieri sulle pagine culturali sull’utilità del liceo classico nel “problem solving”, un invito a rivalutare seriamente gli studi umanistici
L’avrà letto il bell’articolo di Raffaello Masci sull’utilità del liceo classico nel problem solving l’ex ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, il cui nome resterà legato, a futura memoria, alla frase che pronunciò quando sedeva nella poltrona del Ministero della Minerva: «Il liceo classico ci ha corrotto»? era un’accusa impietosa contro una certa idea degli studi, sistematizzata da Gentile e non disprezzata da Gramsci, che privilegiava la teoria e l’educazione alla riflessione e al dialogo rispetto alle abilità manuali, del tutto trascurate in quell’ordine di studi. Berlinguer non si è mai pentito di quell’affermazione, mentre non è affatto acquisito che le accresciute potenzialità manuali connesse con l’uso dei più svariati strumenti tecnologici (dal computer al telefonino, dall’iPod all’iPad) facciano crescere nei giovani il «pensiero critico». ed è stato saggio il richiamo all’ultimo libro di Martha Nussbaum, perché la filosofa americana sostiene - con Obama - che investire più tempo a insegnare cose che servono prepara i giovani alla carriera, mentre investire più tempo ad insegnare cose che non servono li prepara all’umanità.
Allora, il deficit crescente di democrazia e di partecipazione politica che sempre più lamentiamo, possiamo imputarlo anche al fatto che al progresso tecnologico delle giovani generazioni non ha corrisposto una pari acquisizione degli strumenti critici idonei per leggere ed interpretare il mondo in cui vivono. L’acquisizione di abilità manuali e pragmatiche, il cui scopo sia solo il prodotto e il profitto, da sola infatti non basta per svolgere un ruolo consapevole nella costruzione di una società giusta, solidale, etica.
Paolo Fai
Da L’editoriale dei lettori – «La Stampa» (5 marzo 2011)
A Luigi Berlinguer sono bastate due nefaste “uscite” soltanto, l’una fatta, l’altra detta, quando dirigeva il Ministero della Pubblica Istruzione,
per assicurarsi il quarto d’ora di wahroliana celebrità. La prima è la riforma universitaria del 3+2, che ha declassato l’università italiana a livelli da quarto mondo. L’altra, l’accusa impietosa al
liceo classico, condensata in una frase pesante come un macigno: «Il liceo classico ci ha corrotto». Era un autodafé inflitto a una certa idea degli studi, sistematizzata da Gentile e non disprezzata
da Gramsci, che privilegiava la teoria e l’educazione alla riflessione e al dialogo rispetto alle abilità manuali, del tutto trascurate in quell’ordine di studi. Berlinguer non si è mai pentito di
quell’affermazione, mentre non è affatto acquisito che le accresciute potenzialità manuali connesse con l’uso dei più svariati strumenti tecnologici (dal computer al telefonino, dall’iPod all’iPad)
facciano crescere nei giovani il «pensiero critico». È il punto forte del libro di Martha Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, riedito da
poco dal Mulino, in cui la filosofa americana sostiene, tra l’altro, la tesi espressa dal presidente Barack Obama nel corso dell'inaugurazione dell’anno scolastico 2009/2010, secondo cui investire
più tempo a insegnare cose che servono prepara i giovani alla carriera, mentre investire più tempo ad insegnare cose che non servono li prepara all’umanità.
La stessa convinzione attraversa il recente pamphlet di Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile, Bompiani, pp. 265, euro 9, sottotitolato “Manifesto”, quasi a voler richiamare il più celebre Manifesto
marxiano. Là erano i proletari a venir chiamati alla lotta rivoluzionaria contro lo sfruttamento economico della borghesia, qui sono convocati a una rivolta morale gli uomini che credono nella
necessità di difendere il primato delle “arti della gioia” sulla logica utilitaristica del mercato e del profitto che banchieri e finanzieri stanno ormai imponendo alle sfibrate e di fatto esautorate
democrazie occidentali. Il predominio dell’avere sull’essere è antico quanto il mondo e non appartiene soltanto alla cultura dell’occidente. L’antidoto alla ricerca dell’utile a tutti i costi,
compreso quello della distruzione del pianeta – rischio oggi più incombente che mai –, è additato da Ordine nel recupero della centralità degli studi disinteressati. Quelli umanistici innanzitutto.
Ma anche la ricerca pura, che non ha come obiettivo primario l’utile immediato, ma nasce dalla «curiosità, che, anche se non genera qualcosa di utile, è probabilmente la caratteristica che meglio
qualifica il pensiero moderno». Lo dimostra il saggio finale, inedito, che Ordine offre ai lettori. L’autore, Abraham Flexner, lo pubblicò nel 1939 su «Harper’s Magazine» col titolo che Ordine ha
dato al suo libro, argomentandovi che «in tutta la storia della scienza la maggior parte delle grandi scoperte, che si erano poi dimostrate di beneficio per l’umanità, erano state fatte da uomini e
donne non motivati dall’aspirazione a essere utili, ma spinti dal desiderio di soddisfare la loro curiosità». Oggi l’Italia è in affanno più di altri Paesi europei perché più penalizzati sono gli
investimenti statali nella cultura e nella ricerca. È inevitabile che così la società precipiti nel baratro dell’ignoranza. Se ne lamentava Victor Hugo in un discorso pronunciato il 10 novembre 1848
nell’Assemblea Costituente francese, definendo negative «le riduzioni proposte sul bilancio speciale delle scienze e delle arti».
Ma i francesi hanno imparato la lezione del grande scrittore dei Miserabili se destinano ben 254 milioni di euro alla Bibliothèque Nationale parigina, che «ha un numero di dipendenti più
elevato di tutte le 46 biblioteche statali [italiane] messe insieme» (G.A. Stella), mentre la Biblioteca Nazionale di Firenze deve contentarsi di appena 2 miserrimi milioni di euro.
Mentre risulta in crescita il numero degli analfabeti funzionali, cioè non capaci di usare in modo adeguato le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana,
chiedersi a chi giovi lo spregio costante in cui sono tenute in Italia la cultura e l’arte, in tutte le loro manifestazioni, è urgente e doveroso. La risposta, già nota, quella sì che è inutile. E
disperante.
Paolo Fai
«La Sicilia», martedì 12 novembre 2013, p. 20