Luca Pione
Accostarsi ad un tema come questo oggi, dopo aver ascoltato e visto le immagini e le voci dell'attentato di Bruxelles, richiede un momento di silenzio consapevole che vada oltre le frasi di rito o le invettive di parte: la cultura insegna il rispetto per l'uomo.
Giovedì 17 marzo, nella Sala Comunale delle Conferenze, l'UNIDEA, presieduta dal Prof. Ernesto Billò, ha ospitato, in un pomeriggio dedicato all'Europa, le riflessioni del nostro Presidente, il Prof. Stefano Casarino, e del Dr. Franco Chittolina; comune denominatore della conferenza, una coppia di termini attuale e significativa: accoglienza e ospitalità.
L'intervento di Casarino, che accostava a questi due termini anche quelli di cittadinanza e nazionalità, ha inquadrato il problema – affatto nuovo – in una prospettiva diacronica, riavvolgendo il nastro della storia europea alla luce delle migrazioni, dell'ospitalità e dell'identità nazionale.
Da una migrazione, appunto, è nata l'Europa: dall'incontro dei nomadi di lingua indoeuropea con le popolazioni mediterranee autoctone si è generato il “continente umano” di cui ancora oggi siamo parte – i popoli si spostano, sempre: questa è una verità storica innegabile, e ogni concetto geografico ne è una conseguenza.
D'altronde, le idee stesse di Stato e Nazione sono piuttosto recenti: prima di ragionare in questi termini, è bene considerare quale sia stato lo sviluppo del senso d'identità e di avvertimento dell'altro nel nostro passato. In Grecia lo straniero può essere xénos, perché di lingua greca, o bárbaros, e quindi “straniero due volte”; ma soprattutto è nella terra di Omero che il concetto di ospitalità, di xenía, prende forma: un vincolo biunivoco che univa due persone, due famiglie, due discendenze al rispetto reciproco e paritario.
Fin dai poemi omerici emerge tutto questo: la guerra di Troia nasce dall'infrazione di questa legge non scritta da parte di Paride, ospitato, nei confronti di Menelao, suo ospite, ma proprio nell'Iliade un greco ed un troiano, Diomede e Glauco, rinunciano a combattersi e anzi si scambiano doni nel nome di un antico vincolo di xenía; nell'Odissea, invece, Polifemo è un essere bestiale, addirittura cannibale perché disprezza l'ospite, mentre la dolce Nausicaa e il magnanimo Alcinoo accogliendo Odisseo offrono una grande lezione di umanità.
Anche la tragedia ripresenta questo tema, a riprova della sua centralità nel pensiero greco: nelle Supplici Eschilo mette in scena una spinosa questione di ospitalità nei confronti di cinquanta donne, poi concessa dalla cheir demou kratousa, cioè dalla forza “democratica” del popolo; Sofocle, invece, scrive l'Edipo a Colono esaltando, attraverso la figura di Teseo – nella tradizione greca contrapposta a quella dello spartano Licurgo e alla sua xenelasía, la “cacciata dello straniero” – il mito di Atene come patria dell'esule, quasi all'unisono con l'epitaffio pericleo in Tucidide; infine, l'Ecuba euripidea dimostra come gli Achei di Agamennone, greci, si facciano paladini di xenía anche in difesa dei Troiani appena sconfitti contro i “barbari” Traci di Polidoro.
Il discorso, anche se in altri termini, vale anche a Roma.
Proprio l'Urbe, infatti, pur avvertendo l'inferiorità letteraria e culturale nei confronti della Graecia capta, ha elaborato il concetto di ospitalità in una nuova luce, quella del diritto: già al tempo della monarchia – come ricorda l'accorato discorso sulla cittadinanza dell'imperatore Claudio al senato – esisteva la tessera hospitalis, a tutti gli effetti l'antenato del nostro passaporto, che tutelava lo straniero con la garanzia giuridica di un hospes, un ospite romano. In piena repubblica, dopo il trionfo su Cartagine nella prima guerra punica e l'ampliamento dell'influenza sul Mediterraneo, a Roma nasce la figura del praetor peregrinus, magistrato incaricato fra l'altro di esprimersi sulle controversie fra Romani e stranieri, in uno spirito di “diritto internazionale” ante litteram che precorre i secoli.
Ultimo, ma non meno importante, il Cristianesimo.
Nel solco della tradizione classica – perpetuata nei termini etici e filosofici dalla nuova religione – il Vangelo di Matteo si fa portatore di istanze analoghe in termini di ospitalità: “Venite, voi benedetti del Padre mio, e ricevete il regno preparato per voi sin dalla creazione del mondo. Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; sono stato forestiero (xénos) e mi avete ospitato” (25, 34-35).
Non diversamente è scritto nella Lettera agli Ebrei, attribuita dal canone a San Paolo, che rimarca l'importanza della philadephía, cioè della fratellanza, e della philoxenía, dell'ospitalità: anche il Cristianesimo, dunque, prosegue la lezione di umanità lasciataci dai classici.
E questa lezione, oggi come e più di ieri, ci insegna che chi accoglie sopravvive, si arricchisce e migliora, mentre chi rifiuta e si chiude è destinato a sparire.
La parola è poi passata a Franco Chittolina, che ha affrontato il problema sulla scorta della sua esperienza a Bruxelles presso le istituzioni dell'UE.
L'intervento ha preso le mosse da una doverosa constatazione storica: l'ultimo secolo dello scorso millennio ha lasciato tracce tremende del suo passaggio, ma la realtà contemporanea dimostra che ciò ha insegnato ben poco ai posteri.
Il patrimonio morale dell'Unione Europea poggia, come sanciscono le sue carte vincolanti, sui valori di libertà, uguaglianza e, soprattutto, solidarietà: principi puntualmente rievocati dalle radici classiche e cristiane del nostro continente, ma – come ironicamente constatava Mark Twain – che sono destinati a sparire se relegati a frasi di circostanza.
Quando, nel 1951, sei Paesi europei appena usciti dalla guerra – che li aveva visti gli uni contro gli altri – si riunirono per istituire la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, e da lì a pochi anni la Comunità Economica Europea, fondarono questa unione su una grande capacità di accoglienza, dimostrata allora e negli anni successivi: quella che, dopo Maastricht, sarebbe diventata l'Unione Europea, oggi conta ventotto paesi membri. I risultati straordinari ottenuti da questa organizzazione sono sotto gli occhi di tutti: il continente più bellicoso della storia ha conosciuto settant'anni di pace e benessere.
In questi ultimi anni, però, i Paesi dell'UE si trovano ad affrontare un fenomeno ordinario, come le migrazioni, reso straordinario per proporzioni dalle guerre che circondano il continente, come quelle in Libia e in Siria. È sbagliato considerare questi flussi migratori come un'emergenza: sono, anzi, qualcosa di conosciuto e di comprensibile, e sono ancora una volta i numeri a confermarlo: nel mondo duecento ventotto milioni di persone sono straniere, e meno del quattro per cento abita il nostro continente, mentre altre zone del mondo, come l'Africa sub-sahariana, sono interessate in maniera molto maggiore da questo fenomeno. Per molti anni si è pensato allo straniero in Europa come Gastarbeiter, “lavoratore ospite”, ignorando che la questione era molto meno superficiale e che questa persona avrebbe abitato, con la sua famiglia, una terra anche “sua”.
Come detto, le migrazioni interessano interamente il nostro continente: eppure l'Unione Europea non ha alcuna voce in capitolo sulla gestione dei flussi migratori, il cui controllo è sempre stato rivendicato dai singoli Paesi. I singoli Stati, infatti, hanno custodito gelosamente questa responsabilità in nome del “sacro confine della patria”, di un'autorità nazionale che permettesse di accettare i migranti utili e di ignorare gli altri, salvo poi rigettare la colpa delle proprie mancanze sull'autorità europea.
Questa Unione Europea, così com'è, palesa limiti strutturali a cui singoli enti – come la BCE di Draghi dal punto di vista economico – cercano di supplire singolarmente: c'è bisogno di una nuova Unione Europea, capace di far fronte alle nuove esigenze politiche del continente nel suo insieme.