Forum 20: Isocrate 2016 e la grande bellezza

Isocrate 2016 e la grande bellezza

di Walter Lapini

 

Quest’anno alla maturità classica è uscita una versione dalla Pace di Isocrate, di circa 17 righi. A sceglierla ci si devono essere messi in due. Il primo ha lavorato bene: ha posato gli occhi su un brano accessibile e lo ha tagliato a légomen (par. 36), oppure a dynaménon, dimostrando che se si ha occhio e pazienza le versioni che si reggono sulle proprie gambe, senza bisogno di protesi e stampelle, si trovano ancora. È vero che al r. 11 ci sono due accenti gravi che dovevano essere acuti, ma l’erroretto non può mancare in un prodotto che viene dal ministero: è un marchio di fabbrica, una griffe. E anche la frase sibillina dei rr. 5-6 non compromette la comprensione dell’insieme.

 

A questo punto è successo qualcosa negli ambulacri del Miur: il signor A. B. Normal è entrato nella stanza, ha strappato la versione dalle mani del mastro tagliatore ed ha aggiunto le quattro o cinque velenose righe finali, che non solo rendono spropositata la lunghezza del brano, ma che anche presuppongono la conoscenza di un fatto storico, la seconda lega navale, di cui lo studente standard nulla ricorda e nulla sa (il che è peraltro ovvio, visto come è stata ridotta, non da ora, la storia greca al biennio, dove va già bene se si riesce a spiegare la prima lega navale).

 

L’assist del signor Normal è stato puntualmente sfruttato (neanche si fossero messi d’accordo!) da Maurizio Bettini nel commento alla versione uscito su «Repubblica» del 24 giugno (p. 21). L’illustre filologo e antropologo del mondo antico afferma che le ultime righe sono la prova provata di quanto sia necessaria la contestualizzazione, parla di una sintassi contorta, di contenuti piatti e scontati. Ma come! Sono i giorni della Raggi sindaca, i giorni del referendum britannico, e noi lì a proporre Isocrate e il suo eterno salmodiare su

 

«‘giustizia’, ‘virtù’, ‘utile’, ‘onesto’, ‘saggezza’, come se in Grecia non ci si fosse mai occupati d’altro. Per di più fornendo esortazioni epocali del tipo ‘fai il bene, non badare ai bricconi, perché alla fine starai meglio di loro’. Sarebbe questa la grande cultura greca?».

 

Con tutto il rispetto, la sintassi non è affatto contorta. E per le ultime righe si sarebbe potuto rimediare con una nota del tipo «l’autore si riferisce a». Bettini dice che la versione è lunga, e qui gli dò ragione. Ma soprattutto si lamenta che è scialba, prevedibile. Ammesso che sia vero, che ci si aspettava da un brano della maturità? Anche dieci righe di Melville possono annoiare. I brani belli e interessanti e profondi e al contempo brevi che tirino fuori dallo studente ciò che sa e ama, non esistono. E infatti Bettini non adduce esempi, mentre fornisce generosi specimina sugli esercizi che si sarebbero potuti assegnare sul pur esecrabile brano del De pace:

 

«la giustizia, dikaiosúne, è una nozione centrale nella filosofia greca: si può chiedere allo studente di spiegare come articolerebbe questo concetto espresso da Isocrate, magari ricorrendo a quanto ricorda di aver studiato in Platone. Ancora, gli si potrebbe chiedere di spiegare il significato di eusébeia. Questo termine designa infatti la reverenza verso gli dèi e il rispetto per i genitori. Che cosa rivela, della cultura greca, la doppia pertinenza di questa parola? Ancora, il testo si apre con il verbo oráo, vedere, e sulla visualità si insiste anche nelle righe seguenti: che valore ha il campo del vedere nella cultura greca? Per rispondere si può parlare della ‘autopsía’ degli storici, del teatro come ‘visione’, delle ‘idee’ platoniche, e così via».

 

Dikaiosyne? Eusebeia? Idee platoniche? Ma allora allo studente si chiede di scrivere libri, non di riempire un paio di fogli a protocollo. Qualche lettore della prima ora ha osservato che domande del genere sarebbero peggio della lega navale, specie trattandosi di domande internamente vuote (teatro come ‘visione’? Perché il virgolettato? Che è il teatro se non visione?) o improprie: i verbi horáo (non oráo) e kathoráo hanno ben poco a che vedere con la «visualità» nel senso in cui la intende qui Bettini (cf. KG 1.135-136; Schwyzer 2.274).

 

Teniamo conto anche del tempo e del luogo. Uno studente alla maturità deve solo dimostrare – per mezzo di prove adeguate a lui, né troppo facili né troppo difficili – di non aver buttato via cinque anni di studio. Pensare che in un momento come questo egli possa farsi rapire dalla biga alata del godimento estetico, che possa porsi altri problemi se non quello di far contenta la commissione, è cosa che fa solo sorridere. Certo, per chi mette i contenuti al primo posto e la traduzione all’ultimo, Isocrate è la peggiore delle scelte, perché rappresenta antonomasticamente la banalità del greco. E tuttavia non esageriamo. Isocrate non sarà l’Olivares dei pensatori, ma non è che nella carta stampata di oggi si trovi molto di meglio. Il fatto è semmai che l’uomo – come ha scritto Solgenitsin – non sa quasi mai costringersi a vedere anche il buono in ciò che ha percepito globalmente come cattivo. Nella parte finale Isocrate se la prende coi mascalzoni che scatenano guerre per interesse privato, astutamente sventolando davanti al popolo la mutanda rossa del «ruolo politico da recuperare». Idea banale? Eppure l’epitomatore del brano sembra averla equivocata, laddove spiega che «i comportamenti rispettosi della virtù non solo sono il fondamento di una vita sociale eticamente corretta, ma portano vantaggi indubbi anche sul piano politico ed economico». Pur dopo molte letture non riesco a trovare nel passo del De pace nulla che corrisponda alle parole che ho messo in corsivo. I vantaggi economici ci sono, ma non per la comunità virtuosa, bensì per i corrotti che – chremata lambanontes – trascinano la città in disastrose avventure. Il meno che si può dire è che il sunto è fuorviante, e che molti, cercando di adattare il greco all’italiano, commetteranno errori che con un testo nudo e crudo – ma ben tagliato e ben titolato – forse non avrebbero commesso. (E qui una domanda: perché le prove di maturità vengono calate dall’alto come leggi mosaiche, senza che nessuno se ne prenda la responsabilità etica e scientifica?).

 

Ma ribattere all’analisi di Bettini è utile fino a un certo punto, perché io sospetto che a Bettini (nonostante le smentite passate e future) stia sullo stomaco la versione in sé, la traduzione in sé; e credo di conseguenza che avrebbe scritto – con qualche aggiustamento s’intende – le stesse identiche cose su Platone o Luciano o Filostrato. Questo autore è astruso, quest’altro è frivolo, quest’altro non rientra nel programma. Tutto prevedibile dunque, tutto déjà vu, déjà écrit. Tutto tranne la frase «sarebbe questa la grande cultura greca?». Questa frase no, non l’avevo messa in conto. È una frase che lì per lì stenti a credere che l’abbia detta proprio un intellettuale della statura di Bettini; te la puoi immaginare semmai in una conversazione alla cena del cumenda, o in bocca a Lucignolo in viaggio per il paese dei balocchi. La tesi dei ‘riformatori’ (di quelli che vogliono annacquare la traduzione delle lingue antiche; annacquare per ora, poi si vedrà) sembra grosso modo la seguente: noi siamo il paese della grande bellezza. Questa bellezza sta davanti ai nostri occhi e noi ce la potremmo gustare a sazietà, senza limiti, senza mediazioni: basterebbe allungare la mano. Ma qualcuno ce lo impedisce: c’è una combriccola di birboni che tiene in sequestro questa grande bellezza, che non vuole erogarla se non a prezzo di umiliazioni e sevizie, delle quali la traduzione della maturità, con la sua grammatichetta, costituisce il simbolo e il trionfo. Ecco la logica del paese dei balocchi, dove non esistono ostacoli e tutto si ottiene senza fatica, dove si gioca a calcio senza fuorigioco perché il fuorigioco è una regola difficile.

 

Io dico che è meglio tenercela questa grammatichetta, questa traduzioncella. All’estero l’hanno eliminata e qualcuno comincia a capire che non è stato un buon affare – non per gli studi umanistici, ma per gli studi in genere. Aggiustiamola, adeguiamola ai tempi dove si può, ma teniamocela. La grammatichetta non è in linea con il facilismo dilagante, ma ti evita brutte cadute, ad esempio quella di pubblicare libri su oracoli ed enigmi (cioè su fenomeni di lingua) mettendo errori di latino persino nella dedica in esergo.

Il Professor Renzo Tosi è il nuovo Presidente Nazionale AICC

 

Nel corso della riunione del 29 gennaio 2024 il Direttivo Nazionale all' unanimità ha scelto Renzo Tosi quale Presidente Nazionale dell' Associazione Italiana di Cultura Classica.
Al nuovo Presidente vanno le congratulazioni di tutto il Direttivo e un caloroso augurio di buon lavoro.

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